Nel diritto del lavoro, il licenziamento è quel particolare istituto giuridico disciplinato dagli articoli 2118 e 2119 del Codice civile che regolano il modo in cui il datore di lavoro (oltre al lavoratore) può recedere da un contratto di lavoro a tempo indeterminato o per giusta causa.
In linea generale, il datore di lavoro può procedere con il licenziamento per giusta causa quando vi sono fondate ragioni per mettere fine al rapporto con un dipendente.
Ma cos’è e come funziona?
Licenziamento per giusta causa, di cosa si tratta?
L’art. 2119 del Codice civile, titolato “Recesso per giusta causa”, prevede che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.”
Il licenziamento per giusta causa può essere irrogato, quindi, in tutti i casi in cui si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto del rapporto di lavoro, ovvero quando si realizzi una situazione in grado di danneggiare irrimediabilmente il legame di fiducia che caratterizza il rapporto di lavoro, rendendo di fatto impossibile la prosecuzione dello stesso.
Si pensi, a titolo, esemplificativo e non esaustivo, a ipotesi di insubordinazione da parte del dipendente, furto di beni aziendali o divulgazione di segreti aziendali, reiterato mancato rispetto delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza del lavoro, risse con i colleghi, l’assenteismo, la falsa malattia o l’uso improprio dei permessi della 104, ecc.
In tali casi, in cui vi è quella che viene ritenuta una “giusta causa”, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento disciplinare anche detto “in tronco” come disciplinato dall’articolo 2119 del Codice civile.
Analogamente, il lavoratore potrà recedere senza preavviso dal rapporto di lavoro se si sono verificati dei fatti che non ne consentano la prosecuzione, nemmeno provvisoria.
Se, a recedere, è il prestatore di lavoro, a questo spetterà l’indennità di mancato preavviso, che, invece, non gli sarà dovuta se a recedere (per giusta causa) sarà il datore di lavoro, dopo aver posto in essere il procedimento disciplinare previsto ex lege.
Licenziamento per giusta causa, quando è possibile
Le condotte che rendono possibile il licenziamento per giusta causa sono molteplici.
I comportamenti del lavoratore che possono portare al suo licenziamento per giusta causa non sono tipizzati dalla legge o elencati in maniera puntuale, ma possono essere ricavati dall’interpretazione di altre norme o dalla natura stessa del contratto, come negli esempi sopra riportati.
Vi sono, però, molte altre condotte che legittimano l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, quali il rifiuto ingiustificato di prestare il lavoro secondo le direttive del datore di lavoro o del responsabile, la falsa timbratura, la prestazione di lavoro a terzi durante la malattia in determinati casi, il furto, ecc.
Negli ultimi anni, con la crescita dei social network e della digitalizzazione del lavoro, soprattutto quello di ufficio, sono aumentati anche i provvedimenti disciplinari, tra cui il licenziamento che ne costituisce il più grave, conseguenti all’utilizzo improprio di questi strumenti.
Licenziamento per giusta causa per via di Facebook: i casi
La giurisprudenza sul licenziamento per giusta causa dell’utilizzo di Facebook si sta moltiplicando e ci sono già tantissimi casi diversi arrivati in Cassazione.
In base alle ultime sentenze sull’argomento, il lavoratore può essere licenziato per giusta causa se compie dichiarazioni diffamatorie e denigratorie nei confronti del datore di lavoro su Facebook, se utilizza i social in maniera impropria e per un periodo di tempo prolungato durante le attività lavorative, se pubblica post mentre si eseguono attività non compatibili durante lo stato di malattia. Alcuni di questi licenziamenti poi impugnati sono stati confermati da vari Giudici aditi.
Con riferimento a Facebook o altri social network è evidente che la diffusione su tali strumenti di un commento offensivo nei confronti del datore di lavoro possa integrare gli estremi della diffamazione, e ciò in considerazione dell’ampia diffusione del commento tramite i social medesimi che determina la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e potenzialmente molto elevato.
Tale condotta, quindi, nell’ipotesi in cui il commento sia offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, integra gli estremi della diffamazione e legittima, quindi, l’irrogazione del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa come stabilito dalla Corte di Cassazione (Cassazione civile sez. lav., 27/04/2018, n.10280).
Non sono mancati, comunque, anche sentenze che non hanno attribuito ai post del lavoratore l’efficacia denigratoria e/o diffamatoria sottesa al provvedimento espulsivo e, a seguito dell’impugnazione giudiziale del licenziamento da parte del lavoratore, ne hanno dichiarato l’illegittimità (Cassazione civile sez. lav., 31/05/2017, n.13799).
Con sentenza n. 782 del 13 giugno 2016 il Tribunale di Brescia ha giudicato legittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice sorpresa a utilizzare il computer aziendale per accedere, nelle ore d’ufficio ai social network, tra cui, in particolare, a Facebook.
Infatti, accedere a Facebook in orario di lavoro, magari per tempi prolungati, costituisce una violazione degli obblighi contrattuali sottraendo logicamente tempo alla prestazione lavorativa e se, per questa condotta, viene utilizzato il computer aziendale, non si può nemmeno invocare la violazione della privacy da parte del datore di lavoro.
Si è detto che può costituire giusta causa di licenziamento anche il commento denigratorio nei confronti del datore di lavoro effettuato via social.
La Corte di Cassazione ha chiarito che postare un commento su Facebook equivale a renderlo pubblico e, come tale, a integrare gli estremi della diffamazione, facendo così venire meno il rapporto fiduciario che deve vigere (Cassazione, Sentenza della Sezione Lavoro n 10280\2018).
Ma si può essere licenziati anche per “offese” scambiate in chat private?
Nel caso precedentemente analizzato, la condotta di postare commenti offensivi viene valutata grave e sanzionata con il licenziamento proprio perché ne può venire a conoscenza un numero indeterminato di persone (il che l’ha fatta assimilare alla diffamazione a mezzo stampa).
L’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni certamente si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati, come la chat di un gruppo Facebook.
I messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono, però, essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile e tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale.
In tale ipotesi, è stata esclusa la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che nella chat sindacale su Facebook aveva offeso l’amministratore delegato (Cassazione civile sez. lav., 10/09/2018, n.21965).
Occorre precisare, però, che sebbene magari non passibile di licenziamento (dovendosi verificare in concreto la gravità, l’intenzionalità e il grado delle offese) siffatti comportamenti potrebbero, però, giustificare l’applicazione di un’altra sanziona disciplinare (multa o sospensione dal lavoro e dalla retribuzione). Occorre, quindi, prestare comunque molta attenzione.
Possono essere passibili di licenziamento o provvedimenti disciplinari anche condotte extra-lavorative postate sui social?
Il concetto di giusta causa non si limita all’inadempimento lavorativo tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extra-lavorative che, seppur estranee alla prestazione che è oggetto del contratto, possono comunque essere tali da ledere il vincolo fiduciario (in un caso, il Tribunale di Bergamo ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che ha “postato” sul suo profilo Facebook una fotografia che lo ritraeva con un’arma).
Attenzione anche a postare sui social situazioni differenti da quelle dichiarate al datore di lavoro. Mi spiego meglio: in un caso, una mia cliente ha appreso da Facebook che un dipendente, durante la malattia, in realtà, si trovava al mare.
In un altro, che il dipendente in infortunio ad un piede aveva postato delle foto mentre circolava serenamente sui rollerblade. In entrambe le situazioni, il comportamento – contestato disciplinarmente – è sfociato nel licenziamento per giusta causa che, impugnato giudizialmente e sottoposto al vaglio dei Giudici, è stato ritenuto legittimo con condanna alle spese del procedimento a carico del lavoratore.
Si può essere licenziati anche se si guardano i social durante l’orario di lavoro?
Assolutamente sì. Il Tribunale di Brescia, già con la sentenza n. 782 del 13.06.2016, solo per citarne una, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice licenziata in tronco dopo aver negato di aver eseguito i numerosi accessi a Facebook dal computer aziendale e contestati dall’azienda e ritenendo che il datore di lavoro, controllandola, aveva leso la sua privacy.
Il Tribunale ha confermato la legittimità dell’atto espulsivo sulla base delle prove fornite dal datore di lavoro, ovvero la stampa della cronologia del pc aziendale e della e-mail personale usati dalla dipendente, ritenendo che non sussisteva alcuna violazione della privacy perché è diritto del datore di lavoro verificare e controllare i computer in uso ai dipendenti, senza che lo stesso avesse commesso violazioni dello Statuto dei Lavoratori, e ciò perché non erano stati eseguiti controlli sulla produttività e l’efficienza della dipendente (che sono vietati) ma solo verifiche estranee alla prestazione lavorativa.
In conclusione?
In conclusione, occorre che i lavoratori facciano un uso attento e consapevole dei social.
Suggerisco, invece alle aziende, di farsi assistere – anche e soprattutto nella delicatissima e fondamentale fase del procedimento disciplinare (contestazione disciplinare-esame giustificazioni-irrogazione del provvedimento) da un avvocato specializzato in materia: ciò consente, nella maggior parte dei casi, di non commettere errori che poi costerebbero carissimi qualora il licenziamento venisse impugnato dal lavoratore e ritenuto illegittimo perché privo dei requisiti di forma o sostanza previsti ex lege.
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